martedì 20 luglio 2010

Mele sulla neve (The End)

Per sicurezza la nonna si alza e serve a tutte le solite mele cotte. Sarà l’effetto degli zuccheri, ma all’improvviso Angela si calma. Non credo che sia il mio assennato discorso sulla vita matrimoniale a quietare il suo animo. Dalle mie parole si capisce che in realtà non ne so niente di crisi di mezz’età e mariti distratti. Sono al mio spensierato secondo anno di matrimonio, Marco ed io litighiamo solo per chi và a fare la spesa e per chi deve pulire la lettiera della gatta.

Quando i nostri cucchiaini si fermano cala il silenzio più assoluto. Ci stringiamo sullo stesso divano come una famiglia di piccioni su un cornicione. Con una coperta di lana cerco di ripristinare la circolazione nei miei piedi infreddoliti.

«Vi ho mai raccontato di Anton?» La nonna rompe il silenzio mentre siamo tutte impegnate a fissare le lingue di fuoco del camino e a recuperare qualcosa di sensato da dire per non cadere nell’empasse di un silenzio troppo prolungato.

Mamma fa cenno di no col capo e tira su col naso. Io incrocio segretamente le dita, fa che non sia un segreto inconfessabile… E invece è proprio così.

Anton, un nome che mia nonna non pronuncia bene e che in dialetto lombardo suona ancora più duro, rievocato con una dolcezza che non ti aspetteresti. Anton è il sole estivo che fa arrossire i tulipani e dorare le spighe, è il rumore del vento fra le foglie dei pioppi e il sapore salato del sudore che impregna gli abiti. Con quel nome viaggiamo nel tempo fino alla gioventù di una vecchia signora che non ha mai dimenticato un soldato visto una sola volta, al fiume mentre faceva il bucato.

Forse perché con l’aggiunta della patina dei ricordi una bella giornata diventa più leziosa e d’effetto di un video musicale, forse perché quando si è giovani si vive tutto col cuore in mano, esposto, aperto; di sicuro quel ragazzo tedesco oggi si è guadagnato una fetta di immortalità.

Quando la nonna finisce il racconto Angela sospira forte e le stringe la mano ossuta fra le sue ben curate e dalle unghie laccate di rosso. Né io né lei sapevamo che ci fosse un prima rispetto all’incontro con nonno Remo. Entrambe eravamo convinte che la sua vita sentimentale fosse iniziata e terminata con lui.

Poco dopo mi addormento e agito le gambe nella fase iniziale del sonno. Quando arrivano i sogni scopro che il divano è troppo piccolo per i corpi distesi di due donne adulte e, dopo essere ruzzolata sul tappeto, decido di spostarmi. Quando arriva la luce del mattino sono già sveglia, intercetto lo sguardo di Angela che si sta svegliando sul divano.

Accendiamo entrambe i cellulari e riceviamo una raffica di sms vaganti. Osservo mia madre. Le si allarga un sorriso sulle labbra, mentre riceve almeno dieci messaggi. Il suo telefono trilla come una sveglia impazzita. Lei sospira e si stringe la coperta al petto, poi scatta in piedi e rassetta la gonna scarlatta. Cerca freneticamente uno specchio e rovista nella borsetta per acciuffare la matita per gli occhi. In dieci minuti è pronta e carica, mentre io fatico per riorganizzare le idee.

«Dopotutto tuo padre non è così male…» Agita il cellulare. «Dieci messaggi, tutti suoi!»

Guardo fuori dalla finestra. La neve che la sera prima era un muro bianco ora si sta sciogliendo, è giallognola e assomiglia alla poltiglia delle mele cotte. Mi stiracchio, strano non ho fretta di scappare via.

Stanotte ho imparato la ricetta del tempo: il mondo mi può attendere ancora qualche minuto.


THE END

giovedì 15 luglio 2010

Mele sulla neve (quarta parte)

Quando provo a chiamare Marco al cellulare una voce artefatta e troppo cordiale si scusa con me e comunica l’assenza di campo. Gli sms si perdono nell’etere e non ricevono risposta. Immagino le parole fluttuare appese a fili invisibili, mentre a una a una si staccano e vengono trascinate via nel vuoto.

La nonna che aveva preparato e calibrato la cena con una precisione sibillina, comunica che c’è da mangiare anche per Angela. Mamma si siede al tavolo e pilucca dal piatto una briciola di arrosto e un frammento di cavolo, studia le due parti del suo boccone come se stesse calcolandone i valori nutrizionali. Io inforco bocconi generosi e passo la lingua per pulire il coltello che gocciola unto.

«Ho deciso. Lascio tuo padre.»

Angela spara il suo colpo micidiale così, con nonchalance. Io strabuzzo gli occhi e tossisco un po’ di cavolfiore, la nonna si fa il segno della croce.

«Mia cara non guardarmi così. Sei grande e sai da tempo che le cose fra noi non vanno.»

«Oh signur!» Esclama mia nonna, la madre di mia madre, come se fosse stata colpita da un proiettile vagante.

Sì sono adulta, ma l’età non prepara i figli a notizie simili. Mi passa subito per la testa l’immagine di Lucy, un fustacchione ventenne con gli occhi a mandorla e bicipiti da nuotatore. Scaccio il pensiero scuotendo con vigore il capo.

«Mamma, non credo che sia una decisone da prendere con leggerezza…»

Lei ha due occhi ferini che si stringono e lampeggiano nella mia direzione.

«Non c’è niente di leggero nella mia vita. Credimi.» Ancora una volta immagino che a parlare sia stata Rossella O’Hara e mi sento la Mami della situazione.

Fuori la neve è un manto tanto delicato quanto insidioso, non mi permette di andare a casa, non posso scappare da questo confronto. All’improvviso salta la luce e non c’è modo di ripristinarla «devono essere Loro» puntualizza la nonna riferendosi ai gestori dell’energia come si farebbe agli alieni. Per fortuna c’è il camino e la cena è calda e servita nei piatti del servizio buono.

Tre generazioni di donne costrette a una convivenza forzata all’interno di una casa rurale, senza contatti col mondo esterno, senza la luce e confort tecnologici. Sembra il promo di un inquietante e nuovo format da Reality. Solo che qui non c’è un copione e si rischia sulla propria pelle, sì perché certi equilibri non vanno minati, certi tasti non vanno premuti, è risaputo.

Eppure Angela è qui davanti a me che piange lacrime pesanti come secchiate e snocciola particolari intimi del suo matrimonio. Piange e si appoggia ora alla mia spalla ora al braccio di nonna. Viola tutti i tabu della famiglia in poche sintomatiche battute, così ben studiate che sembrano appartenere alla sceneggiatura per una fiction.

«Mamma rilassati, sì, insomma non può andare tutto così male! Sono stata a cena da voi domenica. Tu e papà mi sembravate normali…»

«Appunto!»

«Non ti seguo.»

«Normali. Vicini come fratello e sorella, forse come vecchi amici…» si interrompe, singhiozza «dov’è la passione?»

Nonna strabuzza gli occhi, vorrebbe tapparsi le orecchie e fuggire. Ci sono muri di convenzioni in lei, la parola “passione” la atterrisce. Non è una donna bigotta, non appartiene alla schiera dei benpensanti forcaioli, ma nel suo vocabolario non ci sono certi termini. E comunque non è la parola in sé a spaventarla quanto piuttosto l’eventualità di dover parlare con sua figlia di qualcosa che riguardi il sesso.


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venerdì 9 luglio 2010

Mele sulla neve (terza parte)

Quando vado a vedere chi è alla porta non posso credere ai miei occhi, sul cancello intabarrata in uno scialle rosso fuoco c’è Angela, mia madre, bellissima e surreale in equilibrio sui tacchi affilati di un paio di improbabili decolté color rubino. Nella bufera di neve mia madre è una Cappuccetto Rosso un po’ attempata, con l’aggiunta di una spruzzata del fascino magnetico che hanno posseduto solo alcune grandi dive del passato. Quando la vedo penso ai capelli monoblocco di Marilyn Monroe, agli occhi scaltri di Audrey Hepburn; la sua voce è una copia esatta di quella delle doppiatrici dei colossal degli anni cinquanta in perfetto stile Sansone e Dalila.
Perché non le somiglio? La bilancia della combinazione genetica pende tutta dalla parte dell’anonimato, non sono indimenticabile come lei. Assomiglio a mio padre, come lui ho insignificanti capelli a spaghetto e un fisico non proprio da ballerina.
«Gesù benedetto! Che bufera!»
Angela saltella sul vialetto e raggiunge la porta d’ingresso, si toglie lo scialle con un gesto teatrale e mi dà un bacio appiccicoso di rossetto sulla guancia.
«Ho dovuto interromepere il massaggio dall’estetista a causa di questa maledetta neve! Non è per il denaro, anche se si paga in anticipo e in un caso simile non è giusto, ma chissà quando Lucy avrà un’ora di buco per me.»
La nonna ed io la guardiamo un po’ a disagio, facciamo sì con la testa, ma non abbiamo la più vaga idea di come funzionino gli appuntamenti dall’estetista. E comunque chi è Lucy?
«I coreani sono molto impegnati.» La mamma lo dice come si pronuncia amen alla fine di una preghiera, è solenne, assoluta.
«Forse perché sono i migliori.» Azzardo tanto per intervenire e compiacerla.
«C’è di meglio, mia cara, fidati…»
Mentre Angela si dilunga sull’arte del massaggio tailandese, su quanto stimoli l’epidermide e lo spirito, io e la nonna alziamo le spalle all’unisono e ci sorridiamo. Non viviamo nel suo mondo, questo ci rende complici come due scolarette.
Guardo di nuovo fuori dalla finestra, la mia C1 è sommersa dalla neve, a questo punto i miei timori diventano una tragica realtà: sono bloccata in compagnia delle due donne più importanti della mia vita, costretta a una convivenza forzata e al confronto con due colossi della femminilità famigliare.

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mercoledì 7 luglio 2010

Mele sulla neve (seconda parte)

“Piove il silenzio tra noi, vorrei parlarti ma te ne vai.” La canzone è un crescendo di ululati armonici. Sorrido, penso a quando ero ragazzina ed ero qui seduta alla stessa tavola che era ricoperta dalla stessa tovaglia di tela cerata, di fronte alla stessa radio con questa cassetta che suonava e suonava all’infinito. Allora sbuffavo e sostituivo la musica con qualcosa di mio. Andava bene qualsiasi cosa, anche i Metallica, pur di manifestare il mio dissenso verso un’altra epoca.
«Puoi rimanere qui, mangiamo e poi mi racconti.»
Sobbalzo. Strabuzzo gli occhi e tossisco un pezzo di mela.
«Devo andare. Mi piacerebbe rimanere…» mi affretto ad aggiungere «però Marco mi aspetta…»
In realtà ad attendermi a casa ci sono un paio di questioni irrisolte, mio marito col muso lungo e qualche pratica che devo portare in ufficio domani mattina. Non conta, sono un po’ rigida e non tollero che i miei piani siano turbati.
«Ah i giovani…»
«Resterei volentieri, ma devo lavorare.»
La nonna non bada a quello che le ho appena detto, appoggia due piatti sul tavolo, prepara bicchieri e posate per due. Poi va ai fornelli e riaccende il fuoco sotto le pentole. Ha tanti tegami sul gas, più di quanti ne possieda io nel mio appartamento.
«Allora mentre aspetti preparo per te e per tuo marito. Così porti a casa la cena già pronta.»
Questa non è una cattiva idea… Guadagnerò tempo. Il tempo è il bene più prezioso che possieda, non c’è niente che mi attiri quanto l’idea di salvarlo. Mettere al sicuro qualche minuto di pausa garantita sta diventando l’obiettivo della mia vita, frenare il ritmo con cui tutto rotola via dai miei trent’anni e poter disporre del tempo a mio piacimento.
Guardo le spalle strette di mia nonna, seguo le sue mani lunghe e ossute, mi fermo un attimo a osservare le sue ciabatte consumate. È sempre la stessa. I miei occhi la percepiscono uguale da una vita, forse sono ingannati dal fatto che lei indossa sempre gli stessi abiti.
Il maglione azzurro con i bottoni a forma di perle bianche che ha addosso ora è lo stesso che portava per il mio compleanno dei dieci anni, quando i miei genitori mi regalarono una bici nuova. Un’idea sublime per una bambina che compiei gli anni in dicembre. Ho aspettato mesi per poterla sfoggiare. Temo che il mio rapporto con lo scorrere del tempo si sia incrinato proprio in quell’occasione.
I miei pensieri sono interrotti da un trillo acuto che trafigge il silenzio. Il campanello del citofono suona stridulo, mi sembra l’unico spiraglio tecnologico nel buio del medioevo in cui mi trovo.


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lunedì 5 luglio 2010

Mele sulla neve (prima parte)

Mele cotte allo zenzero, dolci, profumate, ricoperte da una sottile crosta di zucchero caramellato, spumose e fragranti. Sono ancora calde, fumano nella tazzina di porcellana bianca con il manico così sottile che lo stringo con cautela fra pollice e indice, come se fosse lo stelo di un tulipano.
Mia nonna mi offre tutto quando vado a trovarla. Mi nutre, riempie porzioni del mio stomaco che non sono abituate al senso di sazietà. Fuori nevica, nella cucina della nonna c’è posto solo per un vago senso d’impazienza che mi punzecchia una frangia di coscienza. Sono bloccata qui, lontana da tutto, stretta in una trappola di affetto e neve fuori stagione. Aspetto che smetta di nevicare per mettermi in macchina e tornare a casa, lancio occhiate inquiete all’orologio e sguardi desolati in direzione della finestra.
Marco sarà in pensiero? Avrà dato da mangiare alla gatta?
Fuori c’è sempre più buio e il vento fa turbinare i fiocchi di neve che sembrano batuffoli di cotone tanto sono grossi.
«Bela la mè pütina! Questa l’è la mè pütina!»
La nonna è in visibilio, come sempre quando mi vede. Le sorrido e ascolto distrattamente le prime note di Lisa dagli occhi blu. Il nastro della cassetta che stiamo ascoltando deve essere vecchio almeno quanto me, la radio lo stiracchia e allunga le note della canzone. La nonna canta “senza le trecce la stessa non sei più”, la sua voce cambia quando parla in italiano, perde di determinazione.
«Ne vuoi ancora?»
Non potrei, non dovrei, mi rovinerò l’appetito per la cena, ma la sua domanda è retorica. Non ha ancora finito di formularla che la mia tazzina è di nuovo piena di poltiglia bianca, soffice e profumata. Accosto il naso come se contenesse petali di fiori. Le mele odorano di scorzette di limone, io le adoro, così mi impegno a cercarle col cucchiaino per mangiarle per prime.
Continua...